11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

martedì 3 ottobre 2017

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Fu questione di un attimo. E la Kasta Hamina venne precipitata in un mare di tenebra.

Anche dopo aver trascorso soltanto qualche settimana a bordo di una nave stellare, estremamente facile sarebbe stato arrivare  a fraintendere quanto avrebbe avuto a doversi considerare naturale e quanto, altresì, avrebbe avuto a doversi ritenere artificiale, confondendo gli uni con gli altri, e arrivando, involontariamente, persino a dimenticare quanto avrebbe avuto a doversi riconoscere qual artificiale piuttosto che naturale. Le navi stellari, del resto, erano da sempre concepite, ideate e costruite a quell’unico scopo: concedere un’illusione di naturalezza là dove, obiettivamente, poco o nulla sarebbe potuto essere tale, attraverso diversi artifici, diverse soluzioni volte a ingannare, con ogni migliore intenzione, i corpi e le menti dei loro occupanti, per non creare disagi, per non negare conforto, a confronto con l’idea di settimane, mesi o, addirittura, anni di vita di bordo, a confronto con il pensiero di abbandonare i confini del proprio pianeta per immergersi nella gelida, oscura e potenzialmente terrorizzante, immensità siderale.
In ciò, pur consapevoli di quanto artefatta avrebbe avuto a doversi considerare la gravità all’interno della nave, nessuno degli uomini e delle donne della Kasta Hamina avrebbe mai avuto ragione di sollevare il benché minimo dubbio sulla concretezza della stessa, apprezzandola, anzi, non diversamente da quella di qualunque altro pianeta, di qualunque altro mondo, e rispettandone le leggi, le regole, anche laddove, in verità, esse, lì dentro, avrebbero avuto a doversi considerare una mera convenzione. Sopra e sotto, basso e alto, ma anche pesante e leggero, debole e forte, avrebbero avuto a doversi essere ritenuti nulla di più, e nulla di meno, di un semplice accordo privo di reale significato, privo di maggiore valore rispetto, banalmente, alla convenzione sociale volta a discernere il pudico dall’impudico, quanto avrebbe potuto essere giudicato accettabile da quanto avrebbe avuto a dover essere ritenuto scandaloso. Se solo avessero voluto, nulla avrebbe impedito ad alcuno di camminare sulle pareti o sui soffitti della nave, o di sollevare centinaia, migliaia di libbre senza fatica alcuna, senza sforzo alcuno, e senza la necessità di una qualsivoglia protesi meccanica al pari di quella della Figlia di Marr’Mahew. Ma la gravità artificiale era solita aiutare tutti loro a mantenere un giusto contatto con la realtà, a conservare un certo equilibrio psichico e fisico, in termini utile a poter continuare a vivere, in maniera indistinta, la propria vita a bordo di quella nave così come in qualunque mondo, in qualunque realtà essa li avrebbe condotti. Ritrovarsene improvvisamente privati, in qualunque altro contesto, in qualunque altra situazione, avrebbe potuto essere considerato addirittura divertente, nelle evoluzioni aeree che ciò avrebbe potuto consentire loro: ma in quel momento, in quel contesto, la situazione era leggermente più problematica… problematica quanto, senza troppe particolari filosofie, avrebbe potuto dimostrarsi essere a fronte dell’imperante, e discesa, oscurità attorno a tutti loro.
Esattamente come la gravità avrebbe avuto a doversi ritenere artefatta all’interno della Kasta Hamina così come di qualunque nave stellare, anche la luce e l’oscurità, e la più semplice alternanza fra giorno e notte, non avrebbero potuto ovviare a essere riconosciute qual totalmente fasulle, frutto di una semplice convenzione non poi così diversa da quella propria della gravità. Al di fuori dei limiti di un pianeta, esternamente ai confini di un mondo, ineluttabile sarebbe stata, infatti, la più semplice perdita di qualsivoglia significato persino per il concetto stesso di tempo, laddove l’anno, le stagioni, i giorni e le ore avrebbero avuto a rivelare drammaticamente tutta la propria più effimera essenza di mere regole localizzate all’interno del proprio contesto naturale. Abbisognando, tuttavia, l’equipaggio di una nave non soltanto di un mezzo, di un ordine di misura, per misurare la lunghezza dei propri viaggi non soltanto in termini spaziali, ma anche in termini temporali, così come per scandire le varie fasi della propria giornata e, ancor più banalmente, per mantenere una giusta alternanza fra il sonno e la veglia, requisito fondamentale nella quasi totalità delle specie senzienti per conservare le proprie facoltà mentali e la propria salute fisica; tale convenzione aveva necessariamente finito per trascendere i confini propri di un mondo, arrivando, addirittura, a essere codificata secondo alcuni canoni condivisi fra diverse culture, fra diverse specie, fra diversi sistemi stellari, al fine di garantirne l’interazione, da permetterne la comunicazione. Per questo, al concetto di anno, era stato affiancato e sostituito, già da tempo, il concetto di ciclo, a conservare intatta la propria etimologia in riferimento all’ipotetico ciclo di rivoluzione di un pianeta attorno al proprio sole, lasciando derivare in mera conseguenza matematica l’intera divisione in stagioni, mesi, giorni e ore senza reale connessione a qualsivoglia reale rivoluzione o rotazione planetaria esistente, ma come puro e semplice canone, in una sorta di media pesata fra i principali sistemi inizialmente coinvolti in simile definizione. E, per un bizzarro scherzo del destino, o per una benevola concessione da parte degli dei, Midda e Be’Sihl, in quell’ultimo anno, o, meglio, ciclo, avevano avuto occasione di verificare quanto, in verità, simile convenzione non avesse a dover essere considerata particolarmente estranea alla misurazione del tempo sul loro pianeta d’origine: in verità, in assenza di qualche sistema di misurazione assoluta del tempo, difficile sarebbe stato per loro definire con precisione assoluta una qualche eguaglianza fra il ciclo e il loro precedente concetto di anno… ma, anche ove fossero sussistite differenze, probabilmente sarebbero state così minimali da poter far loro perdere o guadagnare un giorno nel giro di un lustro. In quel riavvio dei sistemi della nave, tuttavia, ogni luce, ogni barlume all’interno della Kasta Hamina venne sottratto e, in un istante, le tenebre avvolsero ogni cosa, in un’oscurità totale, un nero cappuccio tanto innaturale quanto artificiale era stata, sino a quel momento, l’idea stessa di luce.
In quelle tenebre, in quell’assenza di gravità, e nel silenzio delle preghiere che, ognuno, a modo proprio, ebbe a dedicare a qualunque genere di divinità avrebbe potuto ritenere di poter rivolgere una qualunque supplica; non soltanto la percezione dello spazio venne negata, ma anche quella del tempo e del suo scorrere, in assenza di qualsiasi riferimento, in assenza di un qualunque metro di misura diverso dai semplici battiti dei propri cuori. E molti di quei battiti ebbero a crescere, nell’ansia, nel timore derivante dallo smarrimento lì loro imposto, uno smarrimento nel quale difficile, impossibile, sarebbe stato discernere quanto tempo fosse allor effettivamente passato. E più quei battiti ebbero a crescere, più il tempo parve trascorrere in fretta, di pari passo con l’incedere di quel battere continuo e ossessivo, in misura tale per cui il minuto previsto iniziò ad apparire simile a dieci minuti, e poi a venti, e poi a un’ora, imponendo, alfine, sulle menti di molti il dubbio di essere lì immersi ormai da tempo immemore e, in tal senso, di essere stati lì condannati a morte, o, forse, di essere addirittura già morti, e di aver spiacevolmente scoperto quanto, oltre la vita, non vi fosse null’altro se non l’oscurità e le tenebre.
Ma molto prima di quanto chiunque avrebbe potuto credere, o forse nel tempo esatto per così come annunciato dal capitano, impossibile a dirsi, i corpi di tutti, umani, ofidiana o scillariti, ebbero a riacquisire lentamente peso, nel mentre in cui tante piccole fonti di luce ebbero nuovamente a risplendere e, in ciò, la vita stessa sembrò ritornar a scorrere, dopo che, per un minuto, o forse per un intero eone, era rimasta in sospeso, bloccata nel tempo e nello spazio, o forse oltre il tempo e oltre lo spazio. E quando i piedi, o le zampe, di tutti tornarono a riappoggiarsi a terra, provando un certo piacere nel confronto con la solida consistenza dei propri stessi pesi, nuovamente pareggiati alle relative masse; e quando gli occhi di tutti tornarono a godere della vista delle forme note della Kasta Hamina, riconosciute allor qual lo spettacolo più bello con il quale mai avrebbero potuto confrontarsi, l’incanto maggiore che mai avrebbero potuto desiderare; quegli stessi cuori il battito dei quali non aveva potuto ovviare ad aumentare in maniera quasi esponenziale, tornarono a scandire il tempo delle loro esistenze in termini adeguati, restituendo loro il controllo delle vite estemporaneamente smarrite.

« Plancia a sala macchine… » ebbe alfine a domandare la voce del capitano, all’attenzione del capo meccanico « … Mars… puoi darmi una buona notizia? »
« Qui Mars… » rispose, dopo qualche istante di attesa, con tono sufficientemente allegro da comunicare già, in tal maniera, il risultato ottenuto « … il nostro viaggio può continuare, capitano! »

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