11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

lunedì 15 maggio 2017

RM 134 [già RM 001]


« Due occhi color ghiaccio. »

Un sorriso beffardo accompagnò il lento scandire di tale frase, pronunciata allora quasi con la medesima solennità del principio di un epico poema. Un’espressione di scherno, invero, ancor prima che di un qualsivoglia genere di rispetto, in stridente contrasto con il tono con il quale simili parole stavano venendo proposte, e pur, indubbiamente, un gesto estremamente più sincero di quanto non avrebbero potuto risultare queste ultime, soprattutto nel considerare il contesto a contorno.
Predominanti al centro della scena, in quel mentre, risultavano infatti soltanto due figure.
La prima, maschile, avrebbe avuto a dover essere identificata come il proprietario del sorriso beffardo, nonché colui che, in tal frangente, aveva appena offerto voce alle ultime parole appena risuonate nell’aria. Un uomo di media statura e corporatura, dalla carnagione scura, dai lunghi capelli neri e dagli occhi color castano chiari, quasi tendenti dell’ambrato, dominanti su un viso con contorni morbidi, labbra carnose e naso appena schiacciato al proprio centro. Un uomo dai vestiti eleganti, un completo indubbiamente di sartoria, tagliato su misura, in maniera tale da calzare le membra del suo corpo a perfezione, più simile a una seconda pelle che a un abito vero e proprio. Giacca e pantaloni, coordinati, in una calda e scura tonalità di rosso violaceo, incontravano un naturale compendio in una camicia color panna, e in una cravatta di seta nera, a piccoli motivi dorati, richiamando alla memoria dei motivi dell’Antico Egitto. Ai suoi piedi, infine, morbidi mocassini scamosciati concludevano il quadro così offerto, ad almeno dieci centimetri da terra.
Dieci centimetri da terra: la prima figura predominante al centro della scena, infatti, non stava avendo la possibilità di poggiare i piedi al suolo, costretta dalla seconda figura a mantenersi in sospensione, nel ritrovarsi costretto fra la parete alle sue spalle e il pugno di quest’ultima, chiuso attorno al nodo della cravatta per riservarsi, su di essa, un’opportunità di presa.
La seconda, femminile, avrebbe avuto a dover essere così identificata come la proprietaria dei due occhi color ghiaccio, nonché colei che, pertanto, stava mantenendo il proprio interlocutore in una tanto scomoda, e non propriamente naturale, posizione. Una donna di statura modesta e dalla corporatura atletica, per quanto paradossalmente contraddistinta da seni di giunonica proporzione, dalla carnagione straordinariamente pallida, di un candore simile a latte, per quanto appena disturbato da spruzzate sparse di piccole efelidi, dai corti capelli color del fuoco in netto contrasto al gelo del suo sguardo, e dalle labbra rosse e carnose. Una donna dai vestiti decisamente economici, sicuramente acquistati in saldo in qualche grande magazzino: blue jeans sdruciti, logori sulle ginocchia e, persino, in corrispondenza della curva inferiore del gluteo sinistro, tali non per qualche dettame della moda, ma semplicemente per effetto del tempo, che, in maniera del tutto naturale, li aveva ampiamente consumati in tali punti, e, probabilmente, di innumerevoli cadute, che ne avevano completato l’opera; una larga maglietta rossa con sopra la scritta “Another one bites the dust” stampata in caratteri neri, a riprendere il titolo di una straordinaria canzone del 1980; e un giubbetto di pelle marrone chiara, sufficientemente consunto da rivelare, proprio malgrado, di non essere più giovane rispetto allo storico vinile in tal maniera evocato. Ai suoi piedi, infine, una coppia di vecchi scarponi, del medesimo colore del giubbetto e, seppur probabilmente un tempo estremamente solidi nella protezione offerta, ormai tanto consumati da risultare, probabilmente, morbidi non meno rispetto ai costosi mocassini indossati dalla controparte.

« Ahvn-Qa… credimi se ti dico che, in questo preciso momento, sei a un soffio dallo scoprire quanto io sia in grado di essere violenta. » sussurrò la donna a denti stretti, quasi un ringhio rivolto all’uomo che, in quel momento, stava letteralmente impiccando a mani nude, dimostrando una forza indubbiamente fuori dal comune, soprattutto ove associata a una figura della sua altezza e delle sue proporzioni « E, ti assicuro, se ciò dovesse accadere, non avrai occasione di pentirtene… non in questa vita, per lo meno. »
« Bontor... Bontor… » scosse il capo l’altro, mantenendo inalterato il proprio sorriso beffardo, dimostrandosi del tutto indifferente alla minaccia, ben lontana dall’apparire retorica, così impostagli « Sai bene quanto mi piaccia giocare con il fuoco e, in tutto questo, non stai facendo altro che stuzzicare le mie più torbide fantasie… » scherzò, quasi a volerla ulteriormente provocare « Ma la verità è che, per quanto tu possa essere caduta in basso, nel profondo del tuo animo continui a essere il caro, vecchio piedipiatti di un tempo. E non mi faresti mai nulla di male… non senza una valida motivazione, quantomeno. »
« E cosa ti fa pensare che io non abbia una valuta motivazione…?! » insistette ella, socchiudendo appena le palpebre, quasi a voler celare, al loro interno, il lucente colore dei suoi occhi, nel confronto con i quali l’animo di chiunque non avrebbe potuto evitare di fremere, per timore o, forse, per eccitazione.
« Il fatto stesso che non mi abbia fatto ancora nulla di male. » replicò egli, chiudendo in tal modo ogni discussione a quel riguardo.

Nel silenzio che seguì quell’asserzione, risultò letteralmente palpabile la tensione allor presente e predominante sulla figura femminile protagonista, tanto a livello fisico, quanto a livello emotivo.
A livello fisico, la statuaria immobilità del suo corpo, del suo busto e del suo braccio, non lasciavano trasparire il benché minimo affaticamento, una seppur parvenza di superficiale indebolimento, quasi la postura da lei resa propria fosse naturale quanto restare pigramente sdraiata su un comodo letto, fra soffici lenzuola e morbidi cuscini: di qualunque materia potessero essere fatti i suoi muscoli, definirli granitici sarebbe stato quasi minimizzare la plastica energia che, in quel momento, li caratterizzava, dalla punta dei piedi, a risalire lungo i talloni, i polpacci, le cosce, i glutei, gli addominali e, ancor più in alto, i pettorali, i dorsali, le spalle, le braccia e il collo, tutti trasudanti un’energia terribile e, pur, estasiante. A livello emotivo, l’impegno che ella pose nel non permettere neppure a una singola ciglia di fremere, alle sue nere pupille, all’interno delle iridi glaciali, di modificare la propria estensione, si dimostrò più che trasparente dello stallo in cui, proprio malgrado, si era venuta a ritrovare, interiormente divisa fra quanto avrebbe, sicuramente, voluto compiere e quanto, purtroppo, comprendeva avrebbe altresì potuto compiere: perché, se pur nulla, in lei, avrebbe sollevato il dubbio su quanto temibile avrebbe avuto a dover essere considerata sotto ogni punto di vista, evidentemente a guidarla, e allor a frenarla, era una morale decisamente più elevata di quanto ella stessa, forse, non avrebbe preferito possedere.
Perché, persino a dispetto dello spiacevole sfregio cicatrizzato che ne squarciava il viso in maniera trasversale all’occhio sinistro, nella propria vita pur mai serena, mai propriamente tranquilla, quella donna non aveva mai ricercato la violenza qual soluzione autosufficiente, fine a se stessa, nel voler credere nell’esistenza di un ordine superiore delle cose. E proprio nel confronto con simile idea, con tale prospettiva giusta o sbagliata che essa avrebbe potuto considerarsi, ella aveva da sempre definito le proprie scelte e le proprie azioni, desiderando, al di sopra di tutto, poter mantenere una qualche coerenza con il proprio animo.

« Va all’inferno, Ahvn-Qa… » imprecò, a interruzione del breve momento di silenzio nel quale erano precipitati e, ancor più, a conclusione del dialogo che li aveva visti protagonisti, e che, nella propria parabola finale, l’aveva veduta prossima a perdere il controllo nel confronto di un tanto sgradevole interlocutore.

Liberando, pertanto, il proprio prigioniero dalla morsa così impostagli, Midda Bontor voltò le spalle a Be’Sihl Ahvn-Qa, proprietario del “Kriarya”, uno dei più importanti ed esclusivi locali di Midtown, per avviarsi in direzione dell’uscita, passando indisturbata fra i numerosi gorilla lì comunque presenti a supposta protezione del loro cliente e che, nonostante ciò, per volere esplicito del medesimo si erano mantenuti cautamente in disparte, a non offrirle alcuna scusante di sorta.

« Abbiamo già finito, Bontor…?! » non rinunciò a rivolgerle un’ultima provocazione l’uomo, pur sapendo perfettamente che ella, ormai, non sarebbe tornata sui propri passi « Passa pure a trovarmi quando preferisci… i miei orari li conosci bene. » 

(episodio precedentemente pubblicato il 22 dicembre 2015 alle ore 15:50)

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