11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

mercoledì 2 ottobre 2013

2056


« Chimere…?! »

Impossibile, in quel momento, fu per me discernere l’effettiva etimologia di tale termine, incerta fra considerarlo l’ennesimo errore di traduzione, e certamente non l’ultimo con il quale mi sarei ritrovata ad avere a che fare, o, piuttosto, riconoscerlo qual un termine lì impiegato con assoluta cognizione di causa, sebbene a intendere qualcosa di fondamentalmente diverso rispetto a quanto avrei potuto io riconoscere in quanto tale. A prescindere da ciò, quanto fu immediatamente palese, e quasi ebbe a stonare, alle mie orecchie, nel confronto con l’aspettativa di Duva che, in cuor mio, mi ero realizzata, ebbe a riconoscersi il tono apertamente pregiudicante e, peggio, discriminante con il quale tale parola venne scandita. E, accanto a ciò, quanto fu altrettanto chiaro fu l’evidenza di come nulla, in quelle supposte chimere, avrebbe dovuto essere considerato in una qualche correlazione con i mostri da me conosciuti, e combattuti, contraddistinti dal medesimo nome.
Innanzi ai miei occhi, attratti qual sempre dal nuovo e dalla brama di conoscenza che, nel mio mondo, mi aveva del resto e sicuramente animata nella scelta di una vita qual avventuriera; si stava allora mostrando un altro gruppo di detenuti, vestiti con le nostre medesime uniformi gialle, e già intenti a scavare, con picconi, pale e altri attrezzi ben distanti dal potersi considerare contraddistinti da un particolare livello di tecnologia, che mai avrebbero potuto avere motivo di attrarre il mio interesse se non per un dettaglio di tutt’altro che trascurabile considerazione: l’evidenza di una natura non umana, per quanto, indiscutibilmente, caratterizzata da forme e proporzioni umanoidi!
Se quanto ho scritto precedentemente non è stato del tutto ignorato, potrà essere stato probabilmente colto l’accenno al fatto di come, la mia nera protesi dai rossi riflessi, antecedente al nuovo e straordinario braccio cromato che mi era stato innestato soltanto il giorno antecedente a quegli eventi, mi fosse stata, oltre vent’anni prima, concessa qual contraccambio di un prezzo inaccettabile, e pur, da me, stolidamente accettato, da parte di un razza non umana esistente nel mio stesso pianeta di origine. In conseguenza di ciò, pertanto, mia avrebbe potuto essere legittimamente sottintesa una certa familiarità con quel genere di situazioni… familiarità che, ciò non di meno, non avrebbe mai potuto in alcun modo giustificare indifferenza innanzi all’incredibile varietà di forme e colori che, pur sotto il giogo della prigionia, apparvero persino maestosi al mio sguardo estraneo, obiettivamente alieno a tutto ciò.
Uomini falco, donne serpente, uomini sciacallo, donne gatto, che parvero provenire direttamente dalle immagini a contorno dei geroglifici della straordinariamente artistica scrittura shar’tiagha e, con esse, dal pantheon delle divinità a cui anche il mio stesso compagno venerava sin dal giorno della propria nascita. E, ancora, uomini con la testa di toro, che in altro contesto non avrei esitato a definire minotauri; così come colossi di circa otto piedi di altezza, con braccia possenti come tronchi e un solo occhio nel centro della fronte, che al mio sguardo “primitivo” apparvero quali dei ciclopi. Per non parlare di una coppia formata da un maschio e una femmina dal corpo di ragni e dai busti umani, terribilmente simili a una mia antica avversaria fortunatamente, a oggi, mai più incontrata; così come un uomo, o forse una donna, che, se solo avesse mostrato una pelle in tonalità simili a quelle della roccia, non avrei esitato a additare qual una gargolla, nella certezza di essermi scontrato, in passato, con un suo parente estremamente prossimo. Insomma… se mi si concede il termine, un bestiario estremamente ricco e variegato, a compendio del quale, poi, non mancavano anche figure molto più prossime a consuete fattezze umane, pur contraddistinte da caratteristiche tutt’altro che tali, come epidermidi rosse, blu o verdi; occhi addirittura fosforescenti; o, più semplicemente, orecchie appuntite, piccole corna, zanne e altre amenità tali da poter offrire lavoro a un eventuale censore per giorni, forse settimane o mesi, prima di riuscire a cogliere ogni dettaglio di un gruppo di non più di cento anime, quale anche il nostro era.
Tali, nel linguaggio comune, scoprii in quel momento essere definite “chimere”: non mostri mitologici in grado di sconvolgere la mente dando vita ai più profondi sogni, addirittura inconsci, e trasformandoli in trappole mortali, condanne a morte prive d’ogni possibilità di argomentazioni, qual la creatura che io stessa ebbi occasione di affrontare e sconfiggere agli esordi della mia carriera mercenaria; quanto e piuttosto tutte le creature che, pur caratterizzate da intelletto, creatività, filosofia, cultura e ogni altra possibile caratteristica abitualmente considerata umana, non avrebbero potuto essere confuse in alcun modo quali umane. Un termine, in ciò, necessariamente razziale, e razzista, atto a distinguere, come molti altri da me già noti, e in auge nel mio stesso mondo, gli uni dagli altri, una determinata fazione da quelle ritenute, sempre impropriamente, quali inferiori, per legittimare nei loro riguardi ogni genere di abusi e prepotenze, se non, addirittura, violenze. E proprio in quanto non mi sarei mai potuta considerare estranea al concetto di discriminazione, fosse per questioni di etnia o, addirittura, di sesso, laddove nel mio mondo natale il semplice essere donna avrebbe dovuto essere considerato, nei confronti con società di stampo fortemente patriarcale, già giustificativo di abusi e violenze da parte del primo uomo particolarmente vivace, quale lo stesso aristocratico stupratore da me inchiodato al pavimento in quell’aneddoto che tanto aveva deliziato la mia compagna di cella; il maturare in tal modo coscienza dell’esistenza, anche fra le stelle, di tali situazioni spiacevolmente note, non avrebbe potuto evitare di veder in parte, e sempre più, compromesso il mio entusiasmo nei confronti di quei nuovi mondi, scoperti, ora dopo ora, giorno dopo giorno, sempre più diversi e, ciò non di meno, sempre più uguali a quello nel quale ero nata e cresciuta.
Forse, nelle immensità siderali, non vi erano mecenati, aristocratici e sovrani. Forse non vi erano negromanti e stregoni. Forse era impensabile l’idea di svuotare i propri pitali dalle finestre, o, persino, era impensabile l’idea stessa di un pitale. Forse non vi erano cerusici più prossimi a macellai che a medici quali quelli che mi hanno impiantato questo straordinario arto.  Forse, e ancora, mancavano anche tutte quelle situazioni, quei contesti, per i quali io ero stata già più volte classificata come una primitiva. Ma, ciò non di meno, erano ancora nette differenze fra ricchi e poveri, fra potenti e servi. Era ancora un impiego estremamente arbitrario, e del tutto privo di equità, del concetto di giustizia. Erano ancora prepotenze e soprusi ai danni dei più deboli, dei più indifesi, per la conservazione dello status quo da parte di tutti gli altri. E, ancora e peggio, era lì comunque presente dell’ottusità incapace tale da rendere i più incapaci a superare i limiti della mera apparenza e, in ciò, a non poter accettare alcuna concreta integrazione con chiunque estraneo ai propri canoni, alle proprie idee, ai propri principi.
Sicuramente la mia introduzione in quella nuova realtà non era stata delle più diplomatiche. Indubbiamente avevo commesso molti, forse anche troppi errori. Ma, all’atto pratico, anche il semplice additarmi qual primitiva non avrebbe fatto altro che confermare quanto, dopotutto, nulla di quello che lì dentro, e là fuori, mi avrebbe potuto attendere, sarebbe stato poi realmente diverso da quello che mi ero lasciata alle spalle.
Nuovi mondi, certo… e pur, inevitabilmente, vecchie storie… vecchi giochi.

« Ehy… secondino! » esclamai, sorprendendo non soltanto Duva, ma anche le guardie a nostra scorta, non soltanto nel pretendere lì possibilità di parola, ma, anche, nell’arrestarmi improvvisamente, costringendo anche tutti coloro dietro di me a fare altrettanto per non travolgermi « Secondino! Guardia! »
« … che accade?! » domandò uno dei nostri accompagnatori, in apertura al nostro gruppo, facendosi spazio fra i prigionieri a me antistati per raggiungermi, fra l’incuriosito e l’infastidito in conseguenza a quel blocco tutt’altro che previsto e ben distante dal potersi considerare serenamente tollerato « C’è qualche problema, pomellina…? » mi invitò a parlarle, con tono che, animato da trasparente sarcasmo, precipitò rapidamente nel tediato, risultando trasparentemente tale malgrado l’errore di traduzione sul termine che, ipotizzai, avrebbe dovuto essere “pivellina”.
« Vorrei fermarmi qui. » annunciai, con tono assolutamente sereno, concedendo al mio interlocutore persino un ampio sorriso, a tentare di dimostrarmi il più inoffensiva possibile « Intendo a lavorare… vorrei lavorare qui, con loro! » esplicitai meglio, sollevando la mancina e, con il pollice, indicando i detenuti dell’altro gruppo, già intenti a scavare il cuore della luna per estrarre l’idrargirio lì presente.


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