11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

domenica 28 febbraio 2010

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I
n un simile contesto, i consanguinei propriamente detti di Be’Sihl, fra genitori, fratelli e sorelle, nipoti, zii e cugini, così per come introdotti all’attenzione della mercenaria nelle ultime ore, avrebbero dovuto essere considerati comprensivi, nel loro conteggio, di una settantina di elementi, tali da includere, all’atto pratico, quasi ogni nucleo familiare presente nel villaggio. Improbabile per la donna guerriero, nonostante un’ottima memoria e un sincero interessamento in tal senso, sarebbe potuto essere, pertanto, riuscire già a ricordare tutti i volti così presentatile, al pari, ovviamente, di tutti i nomi, che mai si sarebbe azzardata di pronunciare nel non voler rischiare, ancora una volta, di dimostrare la propria effettiva e naturale ignoranza nella lingua locale: consapevole di ciò, di quell’inevitabile limite, ella aveva cercato di concentrare la propria attenzione ai parenti più prossimi al proprio compagno, quali i genitori, ovviamente, nonché i suoi sei fratelli e le sue cinque sorelle nel senso per lei consueto di tal termine, in un censimento che già non si sarebbe potuto giudicare quale semplice, immediato.
Il padre e la madre di Be’Sihl, ancora vivi e in ottima salute, si ponevano ormai prossimi alle cinquanta estati, un’età decisamente venerabile per i contesti a cui la mercenaria si considerava prossima, e pur non così incredibili in quella terra e in quella particolare zona, in quel villaggio, dove, addirittura, qualche anziano era riuscito a sospingersi al traguardo dei sessant’anni prima di cedere il giusto tributo al guardiano dell’oltretomba, divinità lì conosciuta con il nome di Ah’Nuba-Is. Figure caparbie, quelle dei genitori del locandiere, entrambi impegnati da una vita intera nel rapporto con la terra e i suoi frutti, avevano vissuto un’esistenza che la Figlia di Marr’Mahew non sarebbe mai riuscita ad accettare quale propria e che, ciò nonostante, non avrebbe mai potuto neppure evitare di invidiare, così come sempre a tutti coloro che le avrebbero concesso riprova di simile capacità, di saper ritrovare gioia concreta, soddisfazione autentica, non nel raggiungimento di incredibili traguardi al confine della leggenda, quanto più, semplicemente, nella quotidianità di un’esistenza tranquilla, volta a un lavoro costante, impegnativo, e pur creativo, qual solo sarebbe potuto essere considerato quello di un agricoltore, di un artigiano, di un allevatore o, come il suo stesso padre, di un pescatore. Degli undici, fra fratelli e sorelle, propri del locandiere, solo Be’Sihl aveva deciso di lasciare la terra natia per cercare il proprio fato altrove, mentre tutti gli altri avevano preferito restare in Shar’Tiagh, chi proseguendo sulle orme segnate dal passo dei propri genitori, chi trasferendo la propria attenzione ad altri interessi, soprattutto in conseguenza di un qualche subentrato matrimonio. Così, tre maschi e una femmina ancora oggi proponevano il proprio lavoro nei campi accanto ai genitori, aiutati dalle famiglie che nel frattempo avevano autonomamente formato, mentre altri due maschi si erano volti all’allevamento, un maschio e due femmine alla pesca, fluviale ovviamente, e, infine, due femmine avevano diretto il proprio interesse all’artigianato, nell’abbracciare la professione dei propri mariti, un carpentiere e un vasaio.
Dove anche un concetto tanto numeroso, tanto esteso di famiglia non avrebbe potuto sorprendere la mercenaria, ritraendo, dopotutto, l’immagine classica di un nucleo contadino non esclusivo di Shar’Tiagh ma, al contrario, proprio di numerose terre, forse di ogni regno del continente o, persino, di tutti i continenti, Midda non si era comunque potuta negare una certa curiosità, un certo fascino, nell’esserne posta a così diretto confronto, dal momento in cui simile realtà si proponeva, suo malgrado, decisamente lontana da tutto ciò che per lei era divenuta normalità, non tanto per la ricchezza intrinseca in tale immagine, quanto più per la coesione propria di simile gruppo sociale, per l’unione che, almeno in apparenza, sembrava riuscire a caratterizzare quel piccolo mondo all’interno di un vasto regno in un ancor più vasto continente.

« Non riesco a comprendere in virtù di quale follia tu possa aver deciso di abbandonare questo piccolo angolo di cielo per cercare il tuo fato in quella fogna di Kriarya… » aveva confessato nel corso di quel pomeriggio al proprio compagno, alla conclusione delle lunghe presentazioni che l’avevano vista accompagnata da un angolo all’altro del villaggio, per conoscere una fetta dei suoi abitanti, tutti quelli, per lo meno, lì reperibili perché non dispersi nei campi, nei pascoli o lungo il fiume « In Kofreya sei solo. Qui è tutta la tua famiglia… tutta la tua vita. »
« Sbaglio o non sono l’unico che ha lasciato la propria terra e, guarda caso, è finito proprio in quella “fogna” che ora tanto osteggi? » aveva risposto egli, con un sorriso sornione e divertito sulle labbra « Per quanto poco sappia di te o della tua famiglia, dubito che l’isoletta da cui sei giunta fosse così terribile da importi una fuga. »

Come spesso accadeva nei loro discorsi, nei loro confronti lunghi o brevi, con quelle poche parole Be’Sihl era riuscito, con dolce maestria e nessun desiderio d’offesa verso di lei, a portare a segno il proprio colpo, affondando con precisione in lei e nel profondo del suo animo, nel porre in evidenza quella che sarebbe potuta essere, dopotutto, considerata una chiara incoerenza nel concetto così espresso dalla donna guerriero, dove, in effetti, anche la terra che Midda avrebbe potuto considerare quale propria natia non avrebbe mai potuto riservarsi alcuna occasione di rimprovero, alcuna possibilità di critica, e pur, non per questo, ella non l’aveva abbandonata a tempo debito, non si era allontanata da essa per ricercare, altrove, il proprio futuro, la propria vita. Ciò nonostante, in momenti quali quello attuale, nel cogliere tanta felicità nel prossimo, tanta soddisfazione in quella che per lei sarebbe stata considerata una vita banale, ella non avrebbe potuto evitare di compatirsi per la propria incapacità a raggiungere una simile pienezza nonostante tutti i propri sforzi, tutto il proprio impegno per imporre la propria autodeterminazione.
Forse in tal senso avrebbero dovuto essere analizzate le sue allucinazioni? Forse, quelle immagini orrende, quella terribile distorsione della realtà a lei circostante, avrebbe dovuto essere intesa quale un rifiuto da parte della sua stessa psiche di accettare la tranquillità di una vita serena, di un momento di quiete con l’uomo da lei ora amato?

« Thyres… » sussurrò, gemette quasi, giungendo al giaciglio predisposto per sé e per il proprio compagno e lasciandosi ricadere sopra di esso, ancora vestita, nel lasciarsi trascinare da simili riflessioni, da tali elucubrazioni « Possibile che sia tanto malata? Che mi sia così difficile provare felicità per quello che ho? » domandò, forse rivolgendosi alla propria dea o, più probabilmente, a se stessa, nel tentare di comprendere le ragioni proprie della follia da lei vissuta, tanto inspiegabile, tanto paradossale.

Una voce, priva di risposte alle sue questioni e pur utile a distrarla, giunse allora dalla porta della stanza in cui era entrata, richiamandone l’attenzione e facendole così ritrovare l’immagine di un’anziana donna.
Anche solo nell’osservazione della sua pelle ancor estremamente liscia, morbida, nonostante l’età, e particolarmente scura nei propri toni, molto più di quanto ci si sarebbe potuti attendere da una shar’tiagha, si sarebbe potuto immediatamente comprendere da quale genitore Be’Sihl avesse ereditato il proprio sangue misto. Ras’Meen, tale il nome della madre dell’uomo, fra capelli intrecciati secondo la moda locale e terminanti, in ogni treccina, in un ciondolo dorato, mostrava infatti forme decisamente più morbide di quelle altresì spigolose di quel regno nonché altri particolari decisamente lontani dai caratteri propri di Shar’Tiagh o del suo popolo, con un viso tondeggiante come quello del figlio, un naso leggermente schiacciato, labbra decisamente carnose e, soprattutto, due grandi occhi verdi, questi ultimi non ereditati dallo stesso Be’Sihl ma da altri fra suoi fratelli e sorelle. Il suo fisico, nonostante si proponesse appena appesantito dall’età, non faceva comunque segreto del fascino che, in gioventù, doveva averla caratterizzata, doveva averla resa probabilmente quale una delle donne più belle di tutto il villaggio, retaggio fortunatamente poi divenuto proprio di tutte le sue figlie. Vestita, in quella sera, con una semplice veste bianca, priva di maniche e aperta sulle gambe, ella manteneva coperta le proprie spalle e le proprie braccia con un elegante scialle finemente lavorato, non mancando, nonostante ciò, di fare sfoggio dell’oro proprio delle cavigliere e dei bracciali posti a circondare le estremità di tutti i suoi arti, superiori e inferiori, in un’ostentazione non fine a se stessa quanto più, effettivamente, propria della tradizione di quelle terre, che in tali monili, in simili decorazioni, proponevano un qualche significato non ancora completamente chiaro all’attenzione della mercenaria e pur, indubbiamente, presente.

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