11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

www.middaschronicles.com
il Diario - l'Arte

News & Comunicazioni

E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

mercoledì 12 novembre 2008

307


A
ffascinante e spaventosa: con questi due aggettivi si sarebbe potuta descrivere l’immagine offerta da Carsa impegnata nel confronto con gli zombie. Il corpo, apparentemente delicato seppur atletico della giovane donna dalla pelle color terra, si muoveva con assoluta grazia, quasi fosse impegnato in una danza di seduzione, in un balletto d’amore, nel gestire l’ascia da battaglia da lei scelta come propria arma, uno strumento di morte forse giudicabile come inadatto a lei, troppo pesante per essere gestito da quella armonia, da quelle forme: nonostante ciò, ella giostrava con tale affilato compagno quasi fosse una bambina impegnata con il proprio balocco preferito, roteandolo senza alcuno sforza, senza alcuna fatica. E dove da un lato la scure infrangeva con il proprio filo le ossa dei propri avversari, mutilandoli orrendamente, dal versante opposto la punta di contrappeso si proponeva con forza non inferiore, con violenza assoluta, infilzando i corpi secchi e strappandone, con la propria forma a punta di freccia, grossi brandelli nel momento in cui veniva ritratta. I non morti si stringevano attorno a lei senza timore, senza emozioni nel confronto con simile pericolo, con tale forza, cercando di vanificare nella propria insensibilità al dolore e nella propria superiorità numerica gli sforzi proposti in loro contrasto: anche laddove decapitati di netto, privati di braccia o gambe, essi continuavano ad avanzare imperterriti, allungandosi verso quella pelle di seta, quelle curve ammalianti per graffiarle, per morderle, incidendo su di lei i segni della propria maledizione. La giovane, però, forte dell’esempio di colei che le era stata ispiratrice, non concedeva timore in contrasto ad essi, ritrovando altresì in ogni tocco blasfemo di tali creature sopra il tempio rappresentato dal proprio stesso corpo un motivo di ulteriore avversione: nel momento in cui una mano si spinse a stringerle una spalla, ella rispose con una rotazione rapida dell’ascia, prima tranciando l’intero braccio dello zombie, poi strappandosi di dosso l’arto mutilato con disprezzo per gettarlo lontano; nell’attimo in cui le fauci di due fra i propri nemici già spezzati all’altezza della vita avevano osarono arrivare alle di lei gambe, ella scalciò senza esitazione, saltando poi con entrambi i talloni ad infrangere uno fra quei crani mentre all’altro venne offerta la fredda lama della scure. Maggiore l’impegno di essi si proponeva attorno a lei nel cercare di isolarla dai propri compagni, maggiore era pertanto la di lei libertà di sfogare la propria forza, mulinando vorticosamente l’arma attorno a sé e spazzando nell’impeto di tale gesto chiunque le si fosse proposto attorno.
Tecnicamente interessante si concedeva, al di lei fianco, lo stile di combattimento di Howe: con il proprio fisico asciutto e slanciato, quasi considerabile fragile nel confronto con il fratello d’arme o con la conformazione muscolare della maggior parte dei guerrieri, egli imponeva la propria spada dorata in movimenti precisi e compiti, studiati con dettaglio tale da non offrirgli possibilità d’invidia nei confronti di eventuali spadaccini di professione. I di lui piedi, perennemente scalzi nel rispetto alle proprie tradizioni familiari, al sangue shar’tiagho che scorreva nelle proprie vene, non ponevano alcuna remora nel contrasto al disgustoso terreno di morte su cui inevitabilmente si ritrovava costretto a camminare, venendo sfruttati altresì come armi non inferiori alla sua lama o ai suoi pugni: movimenti coordinati di un intero corpo, atletico ed agile, ponevano in evidente risalto l’esperienza, la bravura del mercenario, giustificando la di lui vittoria in contrasto ai cerberi, della quale altrimenti non sarebbe stata comprensibile la dinamica o giustificabile l’esito finale. La folta chioma composta da treccine nere, disordinate sopra il di lui capo, si muoveva senza tregua, ondeggiando da destra a sinistra, anticipando puntualmente di pochi istanti una successiva azione offensiva o difensiva nei confronti degli avversari che attorno ad egli si affollavano in misura non inferiore rispetto a quanto proposto ai compagni: dove uno zombie cercava di afferrarne le membra, egli reagiva con puntualità allontanandolo con un pugno o un calcio; dove un non morto si spingeva verso di lui con eccessiva enfasi, egli rispondeva tranciandone il corpo con violenti fendenti, cercando di spezzarlo verticalmente ancor prima che orizzontalmente al fine di inabilitarne le capacità di movimento. Ma per quanta abilità potesse offrire, quegli avversari si proponevano diversi da chiunque o qualunque cosa egli avesse mai affrontato prima, negandogli la possibilità di imporre su di essi una reale fine: anche nel momento in cui il shar’tiagho infrangeva uno di quei torsi in parallelo alla spina dorsale, infatti, le due metà continuavano ugualmente ad agitarsi, a muoversi nella ricerca della sua forza, di quell’energia vitale in loro ormai perduta, dimenticata in un passato remoto, insieme a qualsiasi organo interiore o a qualsiasi residuo di putrefazione che altrimenti avrebbero dovuto riversare sul pavimento in conseguenza di tali ferite.
In contrapposizione fisica e mentale all’amico fraterno, Be’Wahr si concedeva forse meno preciso ed elegante nei propri movimenti, imponendo altresì su essi una forza incredibile con la quale il shar’tiagho non avrebbe mai potuto trovare competizione diretta. Armato della propria spada così simile ad un coltellaccio, lo stile di combattimento che egli offriva richiamava più l’idea di una rissa di strada o d’osteria, una lotta fra ubriachi che cercavano senza arte o parte di sopraffare il proprio oppositore: ma dove essi si sarebbero proposti potenzialmente perdenti contro un qualsiasi guerriero degno di tale nome, il biondo si proponeva assolutamente metodico, rendendo l’apparenza dei suoi gesti meramente tale e destinando impavidamente ogni proprio atto alla sconfitta dei propri avversari anche dove essa si proponeva quale impossibile. La mano sinistra, in ciò, falciava senza tregua l’aria per colpire con l’arma stretta in essa chiunque gli si fosse parato contro, mentre la destra, chiusa a pugno, non si offriva di certo da meno, nel colpire con prepotenza quei corpi morti, infrangendo contro la propria forza fisica e psicologica le ossa delle creature che, costanti, si spingevano a ricercarne la morte. Le unghie ed i denti degli zombie, ovunque riuscirono a giungere, affondarono più volte con voluttà nelle sue membra ed in questo molte delle bende con le quali egli avvolgeva strettamente il proprio busto e le proprie braccia vennero infrante, ponendo alla luce i numerosi e particolari tatuaggi lì sotto celati, bagnandoli con il di lui sangue: il giovane, però, non si lasciò intimorire da alcuna delle ferite infertegli, tutte fortunatamente superficiali, continuando a lottare, non arrestando per un solo istante i propri gesti. Addirittura, nel proprio ardimento, egli arrivò più volte a gettarsi con impeto irrefrenabile contro i non morti a cui si opponeva tale da spingerli a terra e ricadere su di essi con il proprio peso, con la propria mole, continuando poi ugualmente in tale pericolosa posizione la propria guerra privata, strappando teste, braccia e gambe e riconquistandosi, ogni volta, lentamente ma costantemente il diritto a ritornare eretto, fiero fra i propri insensibili avversari.
Midda, la più matura fra i propri compagni, colei che maggiore fama ed esperienza aveva avuto modo di accumulare nella propria già leggendaria vita, si concedeva in quella scena, in quella battaglia, degna del nome offertole quasi un anno prima, invocativo della potenza, della forza, dell’invincibilità di Marr’Mahew, dea della guerra nella fede degli arcipelaghi ad occidente di Kofreya. In sé, infatti, ella sembrava includere ognuna delle caratteristiche dei propri compagni quasi come se ne fosse rappresentante dinnanzi a uomini e dei: la grazia di Carsa, la tecnica di Howe, l’impeto di Be’Wahr si riunivano pertanto in quel campione più unico che raro, vedendola spargere in modo instancabile, irrefrenabile, i propri avversari, travolgendoli letteralmente con la di lei presenza. Della di lei mano sinistra, la spada forgiata secondo le conoscenze dei figli del mare sembrava essere naturale estensione, come agendo in risposta diretta ai comandi della di lei mente, agli stimoli del mondo esterno non diversamente come qualsiasi altra parte del di lei corpo. E se contro quella lama dagli azzurri riflessi, i nemici a lei offerti non trovavano possibilità di scampo, non migliore era la sorte prescelta per coloro che alla di lei mano destra, in freddo e nero metallo, avevano la sfortuna di proporsi: senza incertezze, ella dirigeva infatti il palmo della mano aperta a taglio ad affondare all’interno dei corpi mummificati degli zombie che si offrivano alla sua portata, raggiungendone le costole o le vertebre e lì chiudendosi, per poterle strappare di colpo con un effetto finale a dir poco dirompente, oltre che macabro e disgustoso. Non diversamente da Be’Wahr, anch’ella arrivava spesso a lasciarsi trascinare in un confronto corpo a corpo, finendo per spingersi a terra sopra i propri avversari alla ricerca di una totale impossibilità per essi di offrirsi ancora offensivi, ancora abili alla lotta: ma a differenza del biondo, ella si concedeva in tali momenti con assoluta freddezza, con totale distacco, rispecchiando nei propri gesti, nelle proprie azioni il clima glaciale del proprio sguardo, dei propri occhi caratterizzati da iridi praticamente illimitate, quasi prive di iridi nere al proprio interno. In simili dettagli chiunque fosse stato dotato di coscienza avrebbe compreso come impegnarsi in un confronto con ella non avrebbe portato ad alcuna possibilità di futuro, ad alcuna speranza di vita: ma i di lei oppositori, in quel frangente, erano privi di intelletto o di istinto di autoconservazione, laddove su di essi solo la morte già era e sempre sarebbe rimasta.

Nessun commento: