11 gennaio 2008 - 11 gennaio 2018: dieci anni con Midda's Chronicles!

Midda Bontor: donna guerriero per vocazione, mercenaria per professione.
In una realtà dove l'abilità nell'uso di un'arma può segnare la differenza fra la vita e la morte
e dove il valore di una persona si misura sul numero dei propri avversari uccisi,
ella vaga cercando sempre nuove sfide per offrire un senso alla propria esistenza.


Dall'11 gennaio 2008, ogni giorno un nuovo episodio,
un nuovo tassello ad ampliare il mosaico di un sempre più vasto universo fantastico...
... in ogni propria accezione!

Scopri subito le Cronache di Midda!

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E siamo a... QUATTROMILA!

Cioè... tecnicamente saremmo anche a molti di più (4.240) nel considerare anche le tre avventure del ciclo Reimaging Midda e tutti gli speciali. Ma conteggiamo solo i numeri della "serie regolare" e, ciò nonostante, arrivamento all'incredibile traguardo di QUATTROMILA pubblicazioni quotidiane!

Grazie a tutti!

Sean, 18 giugno 2022

lunedì 18 febbraio 2008

039


L’
oscurità avvolgeva completamente la donna guerriero. Un’oscurità psichica, emotiva, spirituale ancor prima che fisica. Come priva di una consistenza materiale, come liberata dai vincoli di un corpo mortale, ella si sentiva sospesa nel nulla, racchiusa nelle tenebre.

« Dove sono? » tentò di pronunciare.

Nessun suono però riecheggiò nell’aria attorno a lei: non la sua stessa voce, non altre voci. Non rumori di fondo, non un respiro, non un battito cardiaco: il buio che aveva rapito ogni senso di lei non le offriva alcuna percezione del resto del mondo. Ammesso che il mondo potesse essere ancora esistente per lei, ammesso che lei fosse ancora esistente per il mondo.

« Sono morta? » chiese ancora, senza riuscire però a rompere quel velo di silenzio.

Per un momento il panico si impossessò di lei: non aveva mai temuto la morte, considerandola parte fondamentale dell’esistenza, imprescindibile conclusione della vita, traguardo che tutti avrebbero prima o poi raggiunto. Era da sempre fermamente convinta che lasciarsi impaurire da essa avrebbe significato perdere la possibilità di godere di ogni giorno che gli dei le avrebbero concesso di vivere: l’umana esistenza, per quanto molti si potessero ritenere al centro dell’universo, era troppo effimera, troppo breve per potersi permettere il lusso di sprecare il proprio tempo nel timore del futuro, del confine ignoto rappresentato dal decesso. Anche per lo stile di vita che ella aveva scelto, per quel lavoro che la portava ogni giorno a svegliarsi con la consapevolezza che sarebbe potuto essere l’ultimo, ella amava pensare alla morte come ad una nuova avventura, all’ennesima impresa in cui si sarebbe avventurata con ardore e sprezzo del pericolo quando le sarebbe stato richiesto, a testa alta con la stessa fierezza con cui ogni giorno aveva affrontato la vita.
Nonostante la fermezza di quel suo pensiero, di quella filosofia che da anni l’accompagnava in ogni istante della propria esistenza, quell’oscurità le offrì un istante di smarrimento, di panico: poteva davvero essere quella la fine di ogni cosa? Poteva quell’oceano cupo ed indefinito essere la di lei ultima grande impresa? Aveva davvero vissuto tutta la propria vita, lottando ogni giorno con tutte le proprie forze, per quell’oblio eterno? Non voleva, non poteva accettare che quella fosse la morte. La morte non poteva essere l’annullamento della vita o l’esistenza stessa non avrebbe potuto avere valore in tale conclusione.

« Non sono morta. Non posso essere morta. » disse di nuovo o, per lo meno, cercò di dire, senza successo.

Per quanto l’oscurità si imponesse su di lei, in lei, facendo di lei stessa fredda tenebra, ella non volle abbandonarsi in quel vortice di non esistenza: ancora una volta la di lei volontà lottava con ogni forza, con ogni energia contro il destino avverso. Non poteva e non voleva accettare che quella fosse la morte, ma se tale si sarebbe dimostrata ella non l’avrebbe ugualmente accolta: in vita era riuscita dovunque chiunque altro aveva fallito, grazie alla propria perseveranza, grazie alla propria tenacia, grazie alla propria audacia. Viva o morta che ora lei fosse, non avrebbe chinato il capo anche laddove nessuna testa le potesse essere rimasta: avrebbe lottato.
Avrebbe lottato, come da sempre aveva fatto.
Avrebbe lottato per ciò in cui ella credeva.
Avrebbe lottato per il proprio diritto ad essere.

« Io non sono mort… aahhh!!! »

Un grido.
Ed in quel grido la voce. La di lei voce che per un istante, per un rapido istante, in un lampo di luce risuonò come un tuono in una notte di bufera. Per un solo momento, un momento fuggevole ed eterno, le tenebre di quell’universo oscuro in cui era finito si squarciarono in un bianco abbagliante, che accecò la di lei vista, mentre il corpo stesso, ritornando presente e vivo, le comunicò un incredibile, ingestibile dolore. Dalla non esistenza in cui era precipitata, improvvisamente le di lei membra sembrarono risorgere, forse come conseguenza del di lei desiderio di lotta e di vita, forse come reazione a qualche ignoto stimolo esterno: ogni fibra del di lei essere gridò di pena, in uno strazio tanto immenso quanto rapido. Quel dolore, quello spasmo di vita che a lei aveva ridonato la luce dell’esistenza, scomparve in una cascata di rosso sangue, che coprì ogni cosa.
Dopo quel momento, dopo quel dolore ingestibile, ella non ebbe neanche la forza di formulare un pensiero di senso compiuto. Per un tempo indefinito, forse pochi secondi o forse ore intere, restò sospesa ed inanimata in quel torrente di tenebra, lasciandosi trascinare nell’invisibile ed impalpabile corrente d’oblio.
Quel dolore, però, le offrì al contempo speranza laddove chiunque altro avrebbe trovato sconforto.
Ella era infatti consapevole di una realtà forse banale, ma che alla maggior parte delle persone sembrava sfuggire: solo i vivi potevano patire, soffrire, gemere e gridare. La vita stessa, dal momento della venuta al mondo, si legava da sempre al dolore ed al sangue, tanto per la madre quanto per il figlio: il primo atto, la prima azione di chiunque nel giungere alla vita, era rappresentato da un urlo ed un pianto e non da una risata di gioia, non da un felice inno cantato. Provare dolore significava vivere: nulla era certo nella morte, nulla era noto sul ciò che avrebbe atteso oltre la vita, tranne la fine sicura di ogni male, di ogni sofferenza, di ogni patimento. Laddove lei ancora provava dolore, laddove ancora il male imperversava attraverso le membra di cui non riusciva neanche più a sentire la presenza, allora non poteva essere morta, non poteva aver abbandonato l’esistenza.
Qualsiasi cosa le stesse accadendo, lei poteva, lei doveva ancora lottare. Lottare per vivere.

« Ce la farà? »
« Se riuscirà a superare la notte sì. »

Voci. Voci che giunsero confuse nell’oscurità in cui lei era perduta. Toni noti o forse ignoti, suoni estranei o forse familiari: quelle parole si mossero nella di lei mente in maniera caotica, indecifrabile, incomprensibile. Apparivano tanto vicine da risuonare come voci di giganti, ma al contempo tanto lontane da sembrare sussurri quasi impercettibili.

« Ho fatto tutto quello che mi era concesso: ora è nelle mani del destino. »
« No. Sbagli. E’ il destino ad essere nelle sue mani. »
« E’ una guerriera: la lotta è ciò per cui è nata. Lotterà. »

Destino. Guerriera. Lotta. Quelle parole erano le uniche che riusciva a comprendere. Le uniche che sembravano arrivare chiare anche nella quiete caotica in cui era avvolta, nell’oscurità che la incatenava, con maglie forti, avvolgenti, tanto strette da farle male, psicologicamente e fisicamente.
Le voci, di chiunque fossero, parlavano di lei. Parlavano di una guerriera. Una donna guerriero in lotta. Lotta per il destino. Per il proprio destino. Quella era la di lei storia, quella era la di lei vita, quella era la di lei esistenza: lei era donna e guerriero, in lotta per il proprio destino. Per creare il proprio destino, con la propria forza di volontà, con la propria energia interiore.

« Lotterò! » cercò nuovamente di gridare, a comunicare con le voci che udiva ed a cui voleva aggrapparsi, per emergere da quell’oceano di oscurità e morte.

E quella parola, quell’affermazione dal sapore di promessa, riuscì a risuonare nelle tenebre, in un sussurro.
Un sussurro di vita e di volontà di vivere.

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